In questi anni sta emergendo sempre più prepotentemente, nell’ambito delle professioni di aiuto (medici, infermieri, ausiliari, volontari, ecc.) il fenomeno del burn out ( letteralmente bruciato) tanto da provocare un intervento formale dell’OMS finalizzato a mettere in guardia sul fatto che la sindrome sta assumendo le proporzioni di un fenomeno globale, con i vari costi crescenti per i servizi sanitari nazionali e la Società .
Gli operatori che lavorano con malati di cancro (medici oncologi, infermieri, psicologi, volontari), sembra che siano esposti in modo particolare al rischio del burn-out, seppure è una scelta professionale “vocazionale”. Ci si sente vivificati, piuttosto che angosciati dal contatto con la sofferenza, si prova una profonda gratificazione nel curare, alleviare il dolore, stare accanto a chi soffre, presenziare al momento del trapasso. Dall’altra però il contatto con la persona malata innesca vissuti dolorosi del limite, dell’incertezza, il timore della malattia e della morte ovvero dell’inutilità della propria opera.
Come tale si evince che la cura degli operatori è fondamentale per “prendersi cura” dell’altro, della persona malata nella sua complessità, riconoscendo i vari bisogni ed esigenze della persona e anche della famiglia, perché non dobbiamo dimenticare che la malattia oncologica è una malattia familiare che va a colpire e destrutturare l’intero sistema.
Gli incontri di gruppo che conduco si pongono come uno spazio e tempo di espressione e condivisione da parte dei singoli membri delle proprie angoscie e dei propri vissuti personali, ritrovando un senso del limite, uscendo dalla idealizzazione e senso di onnipotenza, integrando i vari saperi ed esperienze e dando nuove prospettive, tale da favorire l’integrazione e la coesione di gruppo che danno forza e sostegno nell’operato individuale. In tal modo l’operatore non si sente solo, bensì sente di avere un gruppo di appartenenza cui poter esporre pensieri, dubbi, paure, in una sospensione dal giudizio che permette una spontanea e libera espressione. In tal modo è possibile prevenire il burn-out che si può esprimere con vari livelli di intensità.
Tutto ciò alimenta una migliore competenza relazionale tra persona malata e operatore, tale che il paziente si sente visto, considerato come essere umano nella sua totalità.
Come scrive Jaspers “il cancro è sentimentale”, evidenziando quindi la dimensione umanistica, la volontà della persona di essere considerata prima di tutto un essere umano. Come tale un uomo che incontra un altro uomo, un uomo (operatore, volontario) forte che incontra un uomo debole e che per entrare in contatto deve usare empatia, comunicazione, professionalità (io so cosa fare). Per fare tutto ciò l’operatore sia esso medico, tecnico, volontario deve essere formato .
Come tale si propone sempre più una concezione olistica della persona, in tutte le sue dimensioni bio-psico-socio-relazionali, come conseguenza e riflesso della sua malattia fisica.